Il 9 marzo 2020, in Italia, è arrivato il lunedì nero. E poi il blocco del Paese: come la Cina poco più di un mese prima. A fermarsi non solo le zone rosse, ma nell’intero territorio.
Il resto d’Europa (e del mondo) hanno seguito a ruota, più o meno, con strategie diverse, sull’onda di report e bollettini serrati. Questa strana e inedita situazione, ora almeno in parte rientrata, non offre garanzie sulla sua prevedibile durata, e impone un’incognita temporale scandita da continue e talvolta radicali revisioni di programma, a tutti i livelli, compreso quello del lavoro (in generale), e quello smart in particolare.
Cosa è davvero lo smart working
Invocato come soluzione tampone all’emergenza, poiché i Byte non hanno restrizioni di circolazione e assembramento, lo smart working ha registrato un’impennata improvvisa. Ma lo si può dire davvero smart? Il modo con cui è comunicato, se non altro a livello generalista, sembra semplicistico: lavorare a casa invece che in azienda.
E’ certo un riduzionismo obbligato, nei giorni in cui si doveva stare a casa e in questi nei quali la mobilità è ancora relativamente limitata, ma ciò che viene definito smart working si riduce così a un semplice svolgere a distanza ciò che si potrebbe fare vis-a-vis (e in questi termini anche un colloquio di lavoro da remoto può guadagnare un titolo di giornale come evento smart e di frontiera).
Se fosse tutto qui, si tratterebbe solo di un problema di delivery digitale da un altrove a un centro di raccolta e coordinamento (l’azienda, l’ufficio, la sede…).
Tutto qui?
Associare il concetto di smart working all’emergenza che stiamo vivendo è una confusione semantica: l’attuale accesso all’agilità, di fatto più agile anche perché in deroga alla legge che lo disciplina , non produce gli effetti connaturati allo smart working in senso proprio (fluidità delle connessioni, moltiplicazione relazionale ecc.), ma una straniante sperimentazione di massa: l’allontanamento e la separazione di un sempre più ampio numero di persone dalle proprie comunità lavorative, abilitate tramite tecnologia a mantenersi operative.
Di fatto il termine telelavoro è in gran parte più adatto a descrivere la situazione.
In realtà, lo smart working – o flexible, mobile, agile, activity based, new way of working secondo i termini più ricorrenti per descriverne i concetti affini nei vari paesi – è un paradigma organizzativo più complesso; il risultato di una trasformazione profonda e costante, che trova nella tecnologia un fattore abilitante e uno strumento di accelerazione, ma che non si esaurisce nella tecnologia.
Agile, flessibile nei luoghi e nei tempi, a responsabilizzazione diffusa più che verticistica, lo smart working è stato affrontato da un punto di vista strategico in un lavoro congiunto di Degw, Methodos e Politecnico di Milano, dove sono state individuate quattro leve su cui il paradigma “smart” può svilupparsi efficacemente:
• la cultura, cioè la condivisione dei valori e dei principi che sottendono lo smart working: flessibilità, responsabilizzazione e autonomia decisionale, maggiore attenzione sui risultati e non sul processo, nuovi stili di leadership e comportamenti a partire dal top management;
• le HR policy, con soluzioni di massima personalizzazione, performance management e sistemi di rewarding, flessibilità di orario ecc.;
• le tecnologie digitali e il knowledge management (social network aziendale e social collaboration per lo sviluppo delle relazioni, del senso di appartenenza e della collaborazione interna ed esterna, cloud computing per una maggiore fruizione di piattaforme e risorse…);
• e il workspace, cioè il layout fisico degli spazi di lavoro: con menù di spazi tematici dedicati a diverse forme di operatività e creatività, attenti al benessere psico-fisico, allo scambio di conoscenza attraverso il desk sharing, riconfigurabili e attrezzati a interagire a distanza con home working e team virtuali.