Cinquant’anni di Coima, cinquant’anni di Milano: Inspiring Cities, edito da Skira e pubblicato il primo novembre, è il volume a cura dell’architetto, professore e storico dell’arte italiano Fulvio Irace che racconta il tema dello sviluppo urbano attraverso l’evoluzione di Milano nelle ultime cinque decadi. Il volume affronta il cambiamento del capoluogo lombardo servendosi di un importante apparato iconografico di Gabriele Basilico, le cui fotografie risalenti agli anni Settanta, Ottanta e Novanta dialogano con un lavoro appositamente commissionato al fotografo olandese Iwan Baan che ritrae Milano così come appare oggi.
Inspiring Cities include una trentina di interviste ad altrettanti architetti di fama internazionale, che raccontano i loro progetti su Milano insieme a profonde analisi e riflessioni sulla città del futuro. Il risultato non è soltanto un viaggio visivo, ma un dialogo aperto sul significato e il destino delle metropoli moderne. E’ oggi con Requadro, per parlare del volume ma non solo, il suo autore Fulvio Irace.
Domanda: Con quali idee e obiettivi nasce il volume Inspiring Cities? Che cosa l’ha portata a creare questo importante progetto editoriale e quali emozioni ha provato nella sua realizzazione?
Risposta: Circa due anni fa, sono stato contattato da Skira e poi da Coima per un incontro in merito al loro progetto di fare una riflessione su 50 anni di attività. Essendomi sempre occupato di Milano, dagli anni del regime fascista alla ricostruzione e al boom, l’idea di entrare nelle logiche degli ultimi sviluppi mi interessava. Nel 2022 ho pubblicato un libro – Milano Moderna – che proponeva una lettura della città dai grandi piani degli anni Trenta agli interventi sul patrimonio dismesso del nuovo millennio: la cosa più evidente è il cambiamento della struttura degli investimenti, che ha imposto una trasformazione radicale della figura dell’imprenditore dall’impresa di famiglia a developer che gestisce capitali globali. Mi sono chiesto come questo salto di scala influisse sulla città e sulla qualità dell’architettura, chiamata a misurarsi con una dimensione internazionale in modo da rendere appetibile questo tipo di investimenti finanziari. Il caso di Porta Nuova è esemplare: si tratta di una titanica opera di ricucitura di pezzi di Milano resi obsoleti dall’incuria e dal degrado, in una condizione (ormai ineluttabile) in cui l’intervento pubblico è sempre più limitato. Insomma, siamo stati costretti a misurarci con la globalizzazione e da questo punto di vista Porta Nuova rappresenta un esperimento, con i suoi pregi e con le sue criticità. Devo confessare che per me si è trattato di un incarico impegnativo, in fondo forse anche di un’interrogazione sulla condizione dell’architetto e dello storico urbano che ha richiesto una certa dose di autoanalisi per superare pregiudizi ma anche per evidenziare limiti e criticità che possono aiutare a programmare anche le ulteriori sfide che Milano sta affrontando nel ripensare i vuoti delle aree ferroviarie che rappresentano l’ultima frontiera della rigenerazione di nuovo tipo.
D: Coima. Qual è il progetto della società che più l’ha colpita e per quali motivi?
R: Indubbiamente, l’area di Porta Nuova Garibaldi mi ha colpito per il successo di pubblico che mi ha costretto a ripensare alcune critiche che avevo formulato durante la sua costruzione. Si è trattato di un’operazione del tutto nuova e insolita per la scala, che Milano aspettava da molti decenni di inattività: una prova di quello che si può fare quando ci sono le sinergie giuste per concentrare le energie su un obiettivo e portarlo a termine. Da questo punto di vista ha segnato un benchmark che ci consente anche di ripensare però come questo modello possa essere migliorato e reso più compatibile con le fragilità di larghe fasce della popolazione, e dunque far vedere che la gentrificazione possa portare benefici per tutti.
D: Milano, ieri e oggi. Il giovane Fulvio Irace come vedeva Milano 50 anni fa, nel 1974?
R: La vedevo come una eccitante avventura che celava i suoi segreti e le sue potenzialità dentro una coltre di nebbia e di uggia postindustriale. Erano gli anni di piombo, ma anche gli anni delle ultime avanguardie che colpivano il resto del mondo per il paradosso di un paese marginale, ma creativo e reattivo. Se uno guarda le foto con cui Gabriele Basilico documentava la città nascosta – le periferie, i luoghi dell’industria, i terrain vagues, ecc – si ha ancora adesso l’impressione che quegli ambienti fossero residui di un altro paese. Uno spleen meditativo come un quadro di De Chirico, un lasciarsi andare alla rovina del tempo che qualcuno potrebbe trovare romantico ma che in realtà strideva con l’immagine del centro storico, delle sue vetrine, del suo lusso. Forse era proprio questo squilibrio a rendere vivo il fuoco creativo, il desiderio, l’ansia di esplorare il futuro, l’ostinazione a forgiare nuovi linguaggi, a simulare nuovi comportamenti, che soprattutto il mondo dell’ off design sfidava ogni giorno. Basilico stesso ne era un buon testimone con i suoi ritratti di fabbrica esposti nelle gallerie e nei musei di mezzo mondo.
D: E oggi, dopo 50 anni di esperienza e studio, che cosa pensa di Milano? E’ felice di come è cambiata nel tempo?
R: Nei decenni che a Berlino segnarono l’abbattimento del muro e il ritorno alla condizione di capitale, la città era diventata il centro del mondo creativo. Si respirava l’idea che tutto si potesse fare e gli stessi limiti della città storica diventavano stimoli alla trasformazione. Dico questo perché Milano dopo l’Expo mi ha sempre ricordato Berlino subito dopo il muro: una città internazionale (finalmente), dove si sentono parlare tante lingue, dove si vedono girare tante persone di paesi diversi, dove ogni giorno qualcuno sogna di essere già nel domani. Ancora una volta voglio ricordare le foto di Gabriele: a vederle oggi (e le abbiamo messe per questo ad apertura del libro) sembra di essere in una città bombardata, abbandonata, popolata da una razza in estinzione che si fatica a conciliare con la città dell’opulenza meneghina. E’ difficile avere nostalgia per questo, piuttosto stupore. Spesso uso questo paradosso: oggi a Milano la periferia quasi non esiste più, o perlomeno non esiste più la periferia che Basilico ritraeva 50 anni fa. Ogni tanto, confesso, provo un po’ di nostalgia: poi penso ai berlinesi dopo il muro e mi dico: facile avere rimpianti se stati dalla parte protetta. Ma quelli che prima quelle periferia abitavano, saranno contenti oggi di come si sono trasformate?
D: Per chiudere, uno sguardo al futuro. Come immagina Milano tra 50 anni?
R: Immagino due scenari: uno pessimistico in cui, persa la spinta vitale, Milano si ripieghi su se stessa, dimenticandosi che la sua caratteristica storica è legata alla velocità dei cambiamenti. L’altro, più ottimistico, in cui Milano ripensi se stessa con intensità con larghezza di vedute: che si veda come la città per tutti , la città delle tante occasioni, dove non si abbia paura di fare sempre il passo più lungo della gamba, perché nel frattempo le gambe dei nostri giovani son divenute più lunghe. La città dalle belle architetture, come lo è stata negli anni 30 e negli anni 60; la città dove si viene per studiare, per curarsi, per star bene; la città dove il verde non sia le palme in piazza del Duomo, ma un’estensione di giardini, di aree naturali, di corsi d’acqua che si intrecciano con gli edifici, le strade, le piazze.
I crediti fotografici appartengono a Renato Corpaci (2018)