Effetto Trump presidente Usa: mercati sull’ottovolante

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La lunga tornata elettorale americana si è conclusa con il colpo di scena: il 45esimo presidente degli Stati Uniti è Donald Trump. Il trionfo dell’istrionico magnate del real estate ha contraddetto ogni aspettativa e soprattutto ogni sondaggio che, vista l’ormai cronica incapacità di azzeccare una previsione che è una, appare ormai uno strumento affidabile quanto i tarocchi.

Soprattutto, però, la vittoria di The Donald ha scandalizzato e preoccupato molti. Anche la prima elezione di Ronald Reagan venne accolta con scetticismo e apprensione. Ma come – si diceva – l’uomo più potente del mondo è un ex attore di film western? E peraltro nemmeno di quelli bravi, fosse stato almeno John Wayne… Con il senno di poi non si può negare che Reagan sia stato un grande presidente, e tutt’altro che incapace o irrilevante.

Su Donald Trump è difficile offrire un giudizio sereno, per lo meno su cosa ci si dovrà attendere dal punto di vista economico dalla sua presidenza, per almeno un paio di motivi. In primo luogo il personaggio, che durante la campagna elettorale ha puntato molto sull’aspetto emotivo, inseguendo e interpretando gli umori di un elettorato scontento e vellicandone gli istinti più beceri, e che per molti versi è riuscito sgradevole e divisivo, poco razionale e contraddittorio, si è affrettato a rientrare nei ranghi a risultato acquisito. Chi si aspettava fuoco e fiamme, soprattutto i detrattori, sarà rimasto profondamente deluso dalle prime parole da presidente eletto. Quello pronunciato da Trump è stato un discorso pacato e istituzionalmente noioso, fatto di dichiarazioni da “presidente di tutti”, sugli “Usa amici di tutti i Paesi che vorranno essere amici” e di riconoscimento dell’onore delle armi all’avversaria sconfitta. Un discorso che più tra le righe non si sarebbe potuto.

In secondo luogo, proprio per questa sua smania di ottenere voti puntando più alla pancia che alla testa, le dichiarazioni di Trump in campagna elettorale sono state spesso contraddittorie. Tanto che un vero e proprio programma di governo è difficile da definire.

Dal punto di vista della visione economica, Trump è un repubblicano atipico. In campagna elettorale ha promesso investimenti pubblici per rilanciare l’economia, compresi investimenti in mattone e infrastrutture, senza però chiarire come finanziarli. I ben informati ipotizzano in deficit, cosa che però potrebbe mettergli contro parte della maggioranza repubblicana sia al Congresso sia al Senato. Non è un caso, peraltro, che il clan Bush si sia presentato compatto alle urne, ostentando la scelta di procedere a un voto disgiunto: prendendo cioè la scheda relativa al rinnovo di parte del Senato, ma rifiutando quella per l’elezione del presidente.

Lo staff di Trump, peraltro, è costituito in parte da imprenditori in rapporti con lui nei passati affari immobiliari. Altro indizio che fa pensare che il nuovo presidente punterà molto sul real estate per sostenere l’economia che, anche per motivi ciclici, si trova in fase tutt’altro che fortemente espansiva.

Anche la promessa riduzione delle tasse potrebbe beneficiare il mattone; ma si tratta solo di ipotesi giornalistiche, in quanto, anche in questo caso, nel programma di Trump non ne viene fatto un accenno diretto, ma si parla in generale di abbassamento della tassazione sui redditi d’impresa.

La cartina di tornasole su quelle che sono però le aspettative sulla politica economica del nuovo presidente arriva dai mercati. Dietro l’angolo ci sono borse in altalena con un forte aumento della volatilità, che in soldoni vuol dire improntata al ribasso (anche se per la verità nei primi giorni hanno fatto segnare aumenti più che discese, tranne che per i mercati asiatici aperti durante la conta dei voti), aumento del prezzo dei beni rifugio, a cominciare dall’oro e forse, in futuro, proseguendo con il real estate, e dollaro al ribasso.

A preoccupare i mercati sono la scarsa esperienza di Trump in politica, nonché l’altrettanto scarsa chiarezza dei programmi. E non c’è nulla come l’incertezza che ha un effetto altrettanto deprimente sulle quotazioni. In particolare, per quanto riguarda la variazione positiva dei beni rifugio, l’andamento rispecchia anche il timore di una chiusura del mercato americano nei confronti degli scambi internazionali. Pur avendo ammorbidito posizioni e dichiarazioni nei confronti di Cina e partner commerciali, l’imprinting protezionista dato in campagna elettorale alla politica degli scambi internazionali ha colpito nel segno. Vittima illustre sarà quasi sicuramente il Ttip, l’accordo di libero scambio tra Usa ed Europa. E’ ironico che le argomentazioni apocalittiche avanzate dai detrattori dell’accordo in Europa sull’invasione di prodotti made in Usa (accusati peraltro di essere adulterati se non addirittura nocivi per la salute) siano più o meno le stesse che sono servite a Trump per guadagnarsi il voto di buona parte dell’America rurale, terrorizzata dalla concorrenza della produzione made in Ue.

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