Brand for the city: “Il fare è il nuovo comunicare”

Data:

Non è semplice immaginare il cambiamento. Quando entriamo in una casa vuota, immaginare come potrà essere arredata.
Quando restauriamo un mobile, immaginare di che colore potrà essere. 
Quando piantiamo un albero, immaginare come sarà tra 10 anni.

Ci sono persone, tuttavia, che ci riescono bene. Che si affidano alla visione di un futuro, e lo fanno diventare presente.

Queste persone sono parte di Brand for the city.

Scoprono angoli di città, di parchi, di quartieri e di periferie, angoli non sfruttati, poco utilizzati e abbandonati e… immaginano.

Immaginano cosa succederebbe se, al posto del cemento, ci fossero panchine, vasche per fare l’orto coi bambini, campi da gioco, spazi d’arte.

E tutto questo lo fanno in sinergia con aziende, pubblica amministrazione, terzo settore e cittadini.

Abbiamo incontrato Enrico Giraudi, uno dei partner di Brand for the city. Un passato da pubblicitario e strategic planner nelle più grandi agenzie di comunicazione.

ML: Enrico, e poi? Come sei passato dalla pubblicità alla rigenerazione urbana? 

EG: Ho pensato di prendermi un anno sabbatico! La pubblicità era già cambiata tantissimo. Era cambiata la cultura. Io già mi occupavo di Corporate Social Responsibility, in anni – era il 2003 – in cui ancora sembrava avanguardia.
Sono capitato in un monastero tibetano a Pomaia, in Toscana, dove ho scoperto una scuola di counseling. Prima cercavo di fare entrare dei valori in azienda dalla finestra del Marketing, adesso invece provo a farlo dalla porta principale, ovvero dalle persone. Era la fine 2014. Mi sono licenziato e ho iniziato a lavorare, come oggi, come counselor e formatore aziendale.

A un certo punto, Claudio Bertona (socio fondatore di Brand for the city, ndr), mi ha parlato di un progetto che avrebbe unito la passione per i valori del sociale con le mie competenze in ambito di impresa. Ed eccomi qua, uno dei partner di Brand for the city, assieme a Paolo Gregotti. Il mio passato da pubblicitario lo utilizzo per fare strategia, per far sì che i progetti siano identitari rispetto ai brand, mentre il mio presente da counselor e formatore lo impiego nelle attività di indagine e ascolto delle comunità di cittadini e associazioni che andiamo a coinvolgere.

ML: Che cos’è Brand for the city?
EG: È una s.r.l. nata nel 2021 da un’idea di Claudio Bertona, che è il fondatore e il socio di maggioranza, una persona che ha 40 anni di attività come commerciale nel mondo dei media, ma che è da sempre appassionato di sociale, con un approccio voluto e valoriale, di sostanza. Brand for the city crea dei progetti di collaborazione tra il territorio (il quartiere di una città), i cittadini, l’amministrazione pubblica … e le aziende. Insieme, per realizzare progetti di “rigenerazione urbana”.

Il ponte che vogliamo costruire è quello tra aziende e città: città che hanno bisogno e aziende che investono, mettono risorse, fanno cose concrete. Il nostro tema è accompagnarle ad approcciarsi al sociale nella maniera più giusta: ascoltiamo, vediamo di che cosa c’è veramente bisogno in un territorio e proponiamo una serie di azioni che siano in linea con l’identità e valori dell’azienda. Cerchiamo di trovare il vantaggio comune tra diversi stakeholder. Il senso di Brand for the city è creare delle piattaforme di collaborazione. Poi c’è un secondo elemento, che è quello del fare cultura sulla rigenerazione urbana. La maggior parte di noi vive in città e a tutti interessa che la città diventi un luogo più vivibile. Rigenerazione urbana non è solo rifare la piazza o mettere un nuovo parco giochi: significa rendere queste città di nuovo umane, accessibili a tutti. Ma “che cosa significa vivere bene in una città?”. Quando escono sui giornali le indagini sulla qualità della vita nei grandi capoluoghi, mi viene sempre da ridere. Di che cosa stiamo parlando? Che cos’è “la qualità della vita”? Noi rispondiamo così: qualità della vita è avere a disposizione spazi accessibili in cui le persone possano incontrarsi. Fare rigenerazione urbana è, al cuore, facilitare la creazione di comunità di quartiere. Creare dei luoghi che non sono il fine ultimo, ma in cui si possano costruire relazioni di senso, in cui le persone possano tornare a fare cose insieme. È ricreare un tessuto sociale che la città storicamente ha un po’ distrutto. 
È tornare a rendere questi spazi vivi.

ML: Guidaci nel processo: come lavorate?
EG: Quando un’azienda interessata a investire in un progetto di rigenerazione urbana ci contatta, facciamo una valutazione su spazi e progetti in cerca di sponsor che mappiamo in maniera continuativa in tutta Italia (abbiamo costruito nel tempo una sorta di “catalogo”). Nel caso i progetti già mappati non siano quelli giusti per il brand, provvediamo a fare uno scouting ad hoc.
La priorità si dà a spazi che già esistono e che vanno sistemati: luoghi dismessi, periferie “andate un po’ a male” …. Poi ci sono casi in cui devi crearli da zero. Noi cosa facciamo? Individuiamo lo spazio, parliamo con la pubblica amministrazione che gestisce il luogo, verifichiamo che lo spazio sia disponibile e che la burocrazia ci venga a favore, poi contattiamo le scuole, gli oratori di quartiere, i centri anziani, le associazioni di cittadini, le associazioni non-profit… tutto a chilometro zero! Creiamo quindi un tavolo di lavoro in cui facciamo parlare le persone, e cerchiamo di capire di che cosa c’è bisogno.

ML: Ci fai un esempio?
EG: Agos ha investito in uno spazio pubblico, in periferia a Lecce, presso il Parco Bruno Petrachi. Si trattava di una spianata di cemento che non era mai stata utilizzata. Nelle vicinanze c’è una scuola e un centro anziani. Abbiamo fatto un incontro con queste realtà, assieme all’amministrazione pubblica – con il sindaco e l’assessore: nelle città piccole è un po’ più facile. Abbiamo creato tavoli di ascolto, di lavoro, in cui è emerso che serviva un campo sportivo per volley e basket, la scuola aveva bisogno di un giardino dove fare l’orto coi bambini, il centro anziani voleva proiettare film per fare il cineforum le sere d’estate, e i cittadini volevano dei tavoli per i pic-nic di sera. Lo spiazzo era abbastanza grande perché ci stesse tutto: siamo riusciti a creare uno spazio polifunzionale. Adesso, dopo due anni, è molto frequentato da tanti cittadini di età diverse. Perché? Perché siamo partiti da ciò che voleva la gente. Ci siamo resi conto, in quella occasione, che non è che gli amministratori, che fanno comunque un lavoro difficile, sanno esattamente quello che i cittadini desiderano, perché non possono essere sempre presenti sul territorio. Noi abbiamo avuto un accesso privilegiato ai bisogni delle persone perché siamo andati a chiederlo. È un lavoro, dall’ideazione alla realizzazione, che richiede 6-8 mesi.

ML: Che cosa muove un brand a investire in un’operazione di questo tipo?
EG: Dobbiamo partire da un’altra domanda: “che cosa è, oggi, un brand?”
Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito a un depauperamento di senso e di valore. Negli anni 70 e 80, i brand prendevano posizione su temi sociali, attraverso le pubblicità. La pubblicità era il mezzo con il quale convogliavi valori. Poi i tempi sono cambiati. Siamo cambiati anche noi. Oggi, per esempio, i millenials – chi ha 30-40 anni – non comprano più grazie alla pubblicità. Vogliono vedere cosa fai, sono molto attenti alle azioni di un brand nella società. I social hanno preso l’azienda e l’hanno aperta come una noce. Quindi le corporate non possono più scindere il fare dal comunicare. Le aziende intelligenti hanno capito che un brand che non ha un senso compiuto diventa solo un logo e vale molto meno. Anche sui mercati finanziari.

ML: E quindi… come fate a riempire un brand di senso?
EG: Devi prima fare e poi raccontare la storia di quello che hai fatto. Infatti, in Brand for the city, diciamo spesso che “il fare è il nuovo comunicare”. 
In questo momento le aziende sono sempre più interessate ad investire risorse a beneficio dei territori. Prendiamo l’esempio del Parco Bruno Petrachi a Lecce: Agos ha sostenuto 9 progetti simili in tutta Italia: un progetto con il quale vogliono declinare i loro valori e la loro sensibilità sociale, mantenendo anche una corretta separazione tra questa attività di CSR/sostenibilità e le loro attività di business. Ma anche mantenendo questa separazione, pian piano questo impegno portato avanti con costanza e continuità si riverbera positivamente sulla reputazione del Brand.
Questo tipo di attività può essere particolarmente interessante per un brand retail con una rete di punti vendita sul territorio perché una volta realizzati gli interventi di rigenerazione, questi diventano un’occasione di dialogo con gli stakeholders locali e di comunicazione a livello territoriale.

ML: Quanto l’azienda accompagna questo lavoro di rigenerazione, e quanto rimane? Il privato mette una scintilla di rigenerazione che poi viene gestita, in futuro, dal pubblico?
EG: Quando un brand propone – tramite noi – un progetto di rigenerazione, l’amministrazione pubblica è sempre ben disposta e più che felice di sostenerlo, ma non sempre ha le risorse per sovvenzionarlo e mantenerlo a lungo termine, dunque il nostro modello prevede che l’investimento del privato consenta di mantenere vivo il progetto non solo nel breve ma anche nel medio termine. Così, nei budget, noi predisponiamo sempre due o tre anni di impegni di manutenzione. Impegni che poi possono essere rinnovati, come sta facendo Agos.

Non tutte le aziende decidono di impegnarsi in questa maniera. Dipende dalle politiche aziendali, soggette a cambiamenti di manager e gestione. Una via, per ovviare a tutto questo, è il “patto di collaborazione” con la cittadinanza, che – con l’aiuto del Comune – gestisce essa stessa lo spazio: le attività di manutenzione (il riverniciare le panchine, il tagliare l’erba, ecc.) diventano azioni della comunità, la rendono viva e partecipe.
Per esempio, Agos, sta finanziando un palinsesto di dodici mesi di attività. Per un anno l’avviamento lo dà il brand. Poi, la speranza, nostra, è che pian piano, le associazioni di cittadini diventino autonome. Quella è la vera sfida.

L’esborso finanziario di un brand che decide di fare una scelta simile non è un investimento senza senso o a fondo perduto. Perché il valore che ha questa scelta su chi vive lo spazio, sul quartiere, è enorme.

ML: Come vengono comunicate le azioni?
EG: Questa è proprio la parte su cui c’è ancora spazio d’azione. Le aziende potrebbero fare di più. 
Sono molto timide. Di base, hanno molta paura degli haters. Hanno paura del fatto che, anche facendo buone azioni, i social potrebbero trovare qualcosa che gli si potrebbe ritorcere contro. Ed è comprensibile!
Per noi, di Brand for the city, l’importante è che il progetto venga fatto bene, che sia onesto e che venga utile alla comunità. E, ovviamente, che l’azienda che ce lo chiede sia allineata con i valori della comunità su cui poi interveniamo.

ML: La parola “rigenerazione” fa rima, negli ultimi anni con “gentrificazione”. Lavorate con realtà di sviluppo immobiliare?
EG: I brand che si occupano di sviluppo immobiliare, ogni volta che li abbiamo incontrati, sono venuti da noi con il sincero desiderio di sapere di che cosa ci fosse bisogno nel quartiere. È un giusto modo di approcciarsi alla rigenerazione urbana.

Noi facciamo degli studi di territorio, come uno studio desk, anche online, per capire la demografia di chi ci vive. Leggiamo tanto i social per capire le cose che non vanno. Commenti e condivisioni sono preziosissimi perché vedi nel concreto di che cosa la gente si lamenta o che invece valorizza. Così andiamo a costruire tavoli di lavoro con le associazioni sul territorio.

Per il Fondo Scalo Porta Romana abbiamo fatto una gara di artisti di street-art per abbellire le cesate dei cantieri del Villaggio Olimpico allo Scalo di Porta Romana. Abbiamo cercato di parlare del valore dello sport attraverso l’arte urbana.

ML: Come vive, Brand for the city, il conflitto tra pubblico e privato, in un’epoca in cui il pubblico retrocede sempre di più dai servizi, lasciandoli in mano a un mercato che a volte non rende un servizio ai cittadini, ma cerca di fare profitto da nuovi clienti?
EG: È ovvio che il pubblico e il privato hanno due funzioni diverse. Il pubblico dà le regole e la visione alla vita sociale. Il privato ha come obiettivo fare profitto, creare benessere e dare lavoro alle persone.

Il vantaggio è quando pubblico e privato riescono a dialogare bene insieme, mantenendo reciprocamente i propri ruoli. Quando lavoravo in pubblicità, quello che mi affascinava era portare i valori del no profit nelle aziende.

È uno scambio: il sociale va a contaminare l’azienda e diventa fattore strategico, mentre il saper fare, l’efficacia e l’efficienza, che sono primati del mondo aziendale, vanno a contaminare il sociale.

E poi è interessante veder parlare un manager con un amministratore pubblico. Hanno sensibilità diverse, ma complementari. Pensa a cosa può succedere quando lavorano insieme, quando i valori incontrano le capacità di metterli nel concreto.

Ecco, questo lavoro ha la capacità di mettere insieme delle persone diverse ma belle. E lì avviene un’esplosione, ma in positivo. 
I giovani assessori e i direttori marketing attorno a un tavolo si entusiasmano perché il lavoro di entrambi acquista senso, per loro e per le persone che lavorano con loro. E questo è il terzo livello. Le aziende si impegnano perché i propri lavoratori possano costruire significato attraverso il loro lavoro.

Dobbiamo cercare, nel rapporto tra pubblico e privato, di ricostruire un rapporto virtuoso, illuminato, attraverso le azioni che facciamo.

ML: Come vedi il futuro delle città?
EG: Gli studi che conosciamo ci dicono che a livello globale la gente sta migrando verso le grandi città. Che da un lato dici: che senso ha? Spendi il triplo a viverci, puoi lavorare da remoto invece di prendere mezzi per andare in ufficio… Dall’altro, io penso che le città siano un’opportunità pazzesca. Perché? Perché c’è la gente, e senza gente non succede niente. Ovvio che le città sono anche i luoghi dove ci sono i problemi. Però, proprio grazie a questo, c’è l’urgenza di trovare soluzioni. Per trovare soluzioni, hanno bisogno di essere creative. E la creatività è una delle energie alla base della vita. Ovviamente ci sono delle sfide enormi. Una è quella del costo delle case. Le grandi città devono riuscire a fornire una buona qualità di vita senza che i propri cittadini lavorino venti ore al giorno per riuscire a pagare un affitto. Allora sì che possono diventare un laboratorio di idee e di valori. Siamo a un bivio: diventeranno un inferno da cui scappare o un luogo di co-creazione, di costruzione, di innovazione, di visione. Ecco cosa manca ora nelle grandi città: la visione. 
E poi il rispetto delle regole. 
Vale un po’ quello che vale per un’azienda. Per essere sana deve avere un sogno, un ordine (quindi processi e regole) e poi il coraggio di fare le cose, di mettersi in azione. Sogno, ordine, coraggio e azione. Senza anche solo uno di questi elementi, si fa flop, nel pubblico come nel privato.

ML: Hai parlato di sogno, qual è il sogno di Brand for the city?
EG: È vedere che uno spazio non utilizzato diventi un luogo vivo dove la gente sorride ed è felice. Vorremmo riuscire a fare dei progetti talmente belli che diventino d’esempio, che nascano un sacco di altre Brand for the city… pazienza se poi abbiamo dei concorrenti! E poi, che il tema della rigenerazione urbana si liberi dalla retorica. Che capiscano tutti che gli spazi hanno bisogno di essere riempiti di senso e che più realtà possibili, anche diverse, possono collaborare alla creazione di queste piccole magie.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Related articles

Inwit colloca sustainability-linked bond da 850 mln, gli studi nell’operazione

Infrastrutture wireless italiane S.p.a. ha completato il collocamento del primo sustainability-linked bond per un importo complessivo pari a...

Nel Q3 domanda di case in vendita +12,4% ma battuta d’arresto per gli affitti

La pressione di domanda di case in vendita cresce ancora, +12,4%, nel terzo trimestre del 2025 (luglio-settembre), mentre quella...

I family office aumentano l’esposizione a determinati mercati immobiliari

Tra i family office che hanno aumentato la leva negli ultimi 12 mesi, la finalità più comune è...

Patrigest: a settembre investimenti corporate superano i 7,7 mld di euro

Nel periodo Q1-Q3 2025 si sono registrati in Italia oltre 7,7 miliardi di euro di investimenti corporate, un...