Alberto Favruzzo è una di quelle persone che non ti aspetti. Dotato di un’instancabile curiosità, è capace di fare la cosa più incredibile al mondo e parlarne come se nulla fosse, così come a volte ride e si emoziona davanti agli attimi più piccoli della vita. A tratti è folle, ma comunque è un grande amico. E, aggiungo, un grande creativo, tanto che oggi è produttore cinematografico e pubblicitario, insieme a Martin Alan Tranquilini, di Abisso Studio, casa di produzione con sede in Trentino Alto Adige e attiva in Italia e all’estero. Prima di immergersi nel mondo del lavoro, però, e anche nel mentre, Alberto ha incontrato tantissime persone, città e, ovviamente, case.
Gli elenchi non sono mai belli da leggere, ma forse così è più facile, perché nella sua vita ci sono state: Portogruaro, la cittadina natale; Lignano e Caorle, i luoghi dell’estate; i viaggi con la famiglia in giro per il mondo; la prima vacanza-studio a Londra all’età di 13 anni, seguita nelle estati successive da Cambridge e Malahide, a nord di Dublino; un anno nel Convitto dell’Istituto Filippin di Paderno del Grappa a 17 anni; un’estate a Santa Barbara, in California, all’età di 18 anni; e infine il ritorno a Portogruaro per il diploma al Liceo Scientifico.
Ma la storia non finisce qui, perché a 19 anni Alberto lascia Portogruaro per studiare Cinema al Dams di Bologna, dove risiede per tre anni cambiando due case. Poi è il turno di altre tre città: Firenze, dove vive per un anno diplomandosi in Regia e direzione della fotografia; Venezia, la città del primo lavoro, uno stage in una società di produzione cinematografica; e la nostra Milano, dove avrebbe incontrato il futuro amico e collega Martin Alan Tranquillini, più esattamente al Master in Produzione cinematografica presso il Centro sperimentale di cinematografia. È in questo momento che Alberto, per gli amici Bret, decide di tornare a Portogruaro nella casa di famiglia e utilizzarla come studio, trasformando alcune zone della casa in vere e proprie stanze operative. Anche se, ovviamente, con la valigia a portata di mano, si dice sempre pronto a spostarsi per le trasferte di lavoro. “Mi muovo spesso, in tutta Italia e anche all’estero. Per adesso le mie basi sono Portogruaro in inverno e Lignano Sabbiadoro in estate. Per il futuro ancora non lo so”, mi dice di rientro dalla Mostra del Cinema di Venezia.
Domanda: La tua è una vita in movimento e con molte case. Se dovessi scegliere, quali sono state quelle più importanti e per quali motivi?
Risposta: La prima “casa” a cui penso è la mia barca, che oggi non abbiamo più ma che per molti anni abbiamo tenuto in Darsena a Caorle, località balneare in provincia di Venezia. La barca è stata il luogo in cui per la prima volta ho conquistato l’indipendenza, a 15 anni. Anche se alle medie ero già stato lontano da casa, ero sempre finito in college o case ospitanti, e sentivo quegli ambienti come un appoggio temporaneo, non come un posto mio. Invece a Carole ci rimanevo per estati intere. Prima facevo agonismo di vela, poi sono diventato istruttore, e una stagione ho lavorato in un ristorante. Dovevo gestirmi tutto, era una barca ma alla fine era come una casa, una proprietà della mia famiglia. Mio padre ci teneva tantissimo e la dovevo tenere con molta cura. Dovevo pagare l’elettricità, “fare acqua” (perché dopo un po’ finisce), e imparare a usare il quadro elettrico, che è complicato. La barca mi ha dato un grande senso di responsabilità. Era un mio fortissimo desiderio essere indipendente e vivere da solo, ma per diventarlo dovevo imparare tutte queste cose da adulti. La barca era il mio appartamento, con una cucina, un piccolo soggiorno e dei posti letto. Era una vera e propria casa anche se galleggiava e aveva bisogno di tante attenzioni.
Insieme alla barca, ho tanto amato anche Caorle. Per dirti che non sto scherzando, ho le coordinate di Caorle tatuate nella caviglia. Qui avevo tanti amici che in estate venivano in vacanza. Ci siamo conosciuti tramite la vela e abbiamo creato un bellissimo gruppo: c’erano due ragazzi di Brescia, uno di Milano, uno di Padova, uno di Pompei e uno di Caorle. Anche loro vivevano in appartamento ed erano spesso da soli. Abbiamo creato una bellissima compagnia, puramente estiva. E ogni volta ci dicevamo: “Caorle è una finestra di spazio-temporale assurda, ti fa vivere e vedere le cose in modo diverso”. Per noi era un posto magico, che ci faceva evadere dalla routine degli altri nove mesi dell’anno e stare bene. Dopo un po’, però, come tante cose belle, l’avventura è finita. Prima abbiamo spostato la barca a Lignano, poi l’abbiamo venduta e adesso per l’estate ci siamo stabiliti a Lignano, dove già avevo una casa di famiglia.
D: Un’altra casa che hai sentito come tua?
R: Bologna. Per me gli anni a Bologna sono stati bellissimi. Qui ho cambiato due case, ma quella veramente importante è stata la seconda, in via Andrea Costa. Tutto quello che ho detto sulla barca lo dico anche di questa abitazione. Appena arrivato a Bologna ho trovato casa con altri ragazzi, ma il mio grande amico è stato ed è Riccardo. Anche qui ho conosciuto una nuova forma di indipendenza. Io e Riccardo eravamo indipendenti ma parallelamente, in due. Vivevamo la casa e la vita alla stessa maniera e per me è stato come un fratello. La prima casa, però, non ci piaceva del tutto. Mancava un vero spazio comune all’interno del nostro ambiente, un salotto dove passare il tempo insieme ad altre persone, giocare alla play, mangiare e stare in compagnia. Per noi era troppo importante avere questo spazio dove stare dopo l’università e dire: “Okay, adesso sono a casa e posso rilassarmi”. Quindi ci siamo messi a cercare una casa nuova e l’abbiamo trovata in via Andrea Costa, scegliendola proprio perché aveva questo spazio dove poter essere noi stessi.
D: Tutte le persone che ho intervistato fino ad oggi, alla domanda di apertura mi hanno risposto che la casa più importante è stata la casa dove sono cresciuti. Perché per te non è stato così?
R: Lo è anche per me, eccome. Nella mia casa a Portogruaro ci vivo ancora. È bellissima ed è molto grande. È un punto di ritrovo e riferimento anche per i miei amici. Poi c’è la mia camera, il mio salotto con la stufa. Ci sono i ricordi e tutto il resto. Il fatto è che adesso voglio andarmene da qui. Non mi vedo a Portogruaro nel futuro, e negli anni non so che cosa succederà a questa casa. La venderemo? La venderò io? La trasformerò? Non lo so, mi fa male pensare a queste cose. Ma non vedo l’ora di andarmene da Portogruaro. Anche se adesso ci vivo, vedo questo posto e questa casa come luoghi in cui tornare, non dove viverci. Ho l’esigenza di vivere in città grandi adesso, soprattutto per il lavoro che faccio. Mi piacerebbe andare a vivere a Madrid con la mia ragazza Aurora. E tornare a Portogruaro solo per le festività e le vacanze, o per trovare i miei. Ma ora come ora non ho nulla di certo. Vorrei provare Madrid e Barcellona. Parigi mi attira, e anche Berlino, ma sinceramente non lo so…
D: Tra l’altro all’estero hai già vissuto per alcuni mesi. Hai detto che sei stato in California, anche se eri molto giovane. Che cosa ti ricordi dell’esperienza?
R: Quando sono andato in California avevo 18 anni. Cercavo le feste e il divertimento, ero un ragazzino. Però è stato bellissimo lo stesso. Anche se la California ha dei luoghi stupendi e me la sono girata abbastanza, l’America mi è piaciuta di più per il tipo di vita che ho provato. Mi è piaciuto essere libero e lontano da casa. Ero in una host family. Ho vissuto come un giovane liceale americano, non da turista. La mattina andavo a fare 5 ore di scuola internazionale in inglese con altri studenti provenienti da tutto il mondo. Poi uscivamo, andavamo nei centri commerciali, nei luoghi naturali. Avevo il mio gruppo amici, io e il mio coinquilino messicano giravamo con lo skate e prendevamo i mezzi per andare a trovarli. A rendere il tutto ancora più reale era il fatto che vivevamo nella casa di una vera famiglia, che ha messo a disposizione la propria casa per uno scambio culturale. Mi ospitava una signora con due figli, un molto piccolo e una ragazza della nostra età. Poi spesso era con noi la host-nonna che ci faceva i panini, come le nonne italiane. Al termine dell’esperienza, anche noi abbiamo ospitato delle persone a Portogruaro. Ho ospitato prima Andrew per due settimane e poi Avio, un altro ragazzo. Sono tutte cose che ti arricchiscono.
D: Per quanto riguarda i viaggi, invece, quali sono state le tue esperienze più significative?
R: Tre esperienze sono state molto forti per me: questi tre mesi d’estate in California; il viaggio in Giappone con la mia famiglia; il recente viaggio in Colombia, a luglio di quest’anno. In Colombia ci sono stato per due settimane, insieme al mio collega Martin, la prima a Bogotà per seguire un mercato cinematografico, la seconda a Cartagena in vacanza.
D: Che cosa sono i mercati?
R: Nella nostra industria i mercati, spesso affiancati ai Festival di cinema, sono luoghi dedicati principalmente a produttori, distributori e professionisti del settore per conoscere le ultime tendenze del cinema e seguire alcuni panel, fare networking, proporre e scoprire nuovi progetti e creare collaborazioni. Sono presenti tutto il mondo. Anche i Festival più conosciuti come Venezia, Cannes e Berlino hanno i loro mercati. Quindi a Bogotà c’è stato un mercato, il Bam (Bogotà Audiovisual Market), simile al Mia (Mercato Internazionale Audiovisivo) di Roma. Siamo riusciti ad arrivarci grazie all’Italian Pavillion di Cinecittà, sponsorizzati per far parte della delegazione italiana. Abbiamo in corso un progetto con una produttrice colombiana, conosciuta in un altro mercato a Trieste un anno fa. Quindi ho avuto la fortuna di vivere la Colombia sia in ottica lavorativa sia da turista. È un posto diversissimo dall’Italia, nel lavoro, nei flussi, negli orari e nella percezione dei luoghi. Lavoravamo nel quartiere di Chapinero, aree lavorative e non solo turistiche. È stato un bene: abbiamo visto le persone da vicino, respirando la cultura vera, quella dei lavoratori. In pausa pranzo mangiavamo nei bar, insieme ai lavoratori colombiani.
La seconda settimana, come ti dicevo, siamo stati a Cartagena, che invece è una meta turistica molto nota nel Sud America: ci vanno colombiani, messicani e americani. Avendo avuto una prospettiva completa del Paese, ti dico che mi è piaciuta tutta, la Colombia. È viva, musicale, colorata. È un mondo senza un soldo per piangere ma con tantissimo spirito e vitalità. Noi in Europa abbiamo più soldi ma piangiamo lo stesso e abbiamo perso quello spirito. In Colombia la situazione politico-economica è difficile, ma nonostante questo hanno una purezza d’animo e una vitalità che in ogni persona abbiamo visto. Se capitava il modo di interagire con le persone, sentivi che tutti avevano questo spirito. È una cosa che in Europa sì, ho notato, ma c’è in pochissime persone, non fa parte della nostra mentalità, non più. Poi mentre eravamo a Cartagena c’era pure la finale della Copa America: si respirava un clima ancora più incredibile del normale. Nella piazza principale c’era un maxischermo. Ci siamo comprati le magliette della nazionale per tifare insieme a loro. Era pieno di gente ovunque, una cosa fortissima. Poi la Colombia ha perso ma le persone hanno comunque fatto un sacco di festa. Erano felici lo stesso.
D: Che cosa ti ha colpito invece del Giappone?
R: In Giappone ci sono andato con la mia famiglia in occasione dei sessant’anni di mio padre e dei trent’anni di matrimonio dei miei. Siamo stati una settimana a Tokyo e una a Kyoto, e ci siamo sempre mossi con le guide turistiche. In Giappone pensavo a tutt’altro rispetto alla California. Avevo tanto tempo perché non pensavo ad uscire e divertirmi ma a imparare e conoscere. La cultura giapponese è molto diversa dalla nostra. In Colombia ci sono percezioni diverse su come si vive ma ci sono anche molte basi in comune per noi italiani. In Giappone è tutto diverso, anche nelle premesse. In Colombia cammini, vedi la gente che balla per strada e balli anche tu. In Italia e in Europa tendenzialmente non fai così, ma potrebbe capitare. In Giappone invece capitano cose che guardi da spettatore senza riuscire a partecipare, non sai neanche come approcciarle. È stato molto particolare. Il modo in cui mangiano, interagiscono, si mettono in coda. Sono le piccolissime cose che mi hanno lasciato spaesato.
A Tokyo siamo stati in un hotel che era microscopico. Da fuori vedi palazzi enormi ma a al loro interno le stanze sono minuscole, i soffitti bassi e gli spazi molto stretti. A Kyoto, invece, abbiamo prenotato una casa tradizionale con le porte scorrevoli in carta di riso. Dormivamo nei tatàmi per terra. Sono materassi diversi. Sono sottilissimi e durissimi, molto scomodi. Ma è la loro cultura, loro dormono così. Poi vai nelle case e nei ristoranti e vedi tavolini bassi e senza sedie. Ti appoggi per terra sulle ginocchia e metti il sedere sui talloni. È scomodissimo per noi. In Colombia una sera eravamo al ristorante ed è successo che ci hanno dato stelline filanti e abbiamo iniziato a ballare con il cuoco, che ha sparato olio sulla pentola generando una fiammata enorme. Era una cosa senza senso, bellissima! Ed eravamo in un posto elegante, quindi è proprio nella loro cultura dare vita a queste cose. Certe volte nei ristoranti paghi l’ingresso e assisti a spettacoli burlesque. È tutto un casino enorme, devi urlare per parlare. Ma per quanto queste cose siano insolite, riesci ad entrarci con naturalezza, le vivi, le seti. Perché alla fine si parla di festa, musica, calore. Mentre andare in un ristorante in Giappone, togliersi le scarpe e sedersi per terra in ginocchio è tutto un altro discorso. Mi ha molto affascinato ma al contempo mi ha fatto sentire come uno spettatore esterno incuriosito dalla diversità.
D: Come vedi il tuo futuro abitativo e lavorativo? Continuerai a spostarti così tanto?
R: Per com’è fatto il mio lavoro dovrò essere sempre pronto a viaggiare e spostarmi, per andare ai mercati, ai festival e nei set. Il mondo del cinema è molto dinamico e imprevedibile. Puoi finire dall’altra parte del pianeta da un giorno all’altro: in Italia, in Europa o nel mondo. Di solito sono spostamenti di una settimana o dieci giorni, ma non mi pesano perché mi piace il mio lavoro e sono una persona che ama viaggiare. Continuerò a fare questa vita perché mi piace, ma come ti dicevo vorrei avere come base una città diversa, dove mi piaccia vivere, ad esempio una capitale europea. Portogruaro mi sta stretta e non la sento più come il mio posto definitivo. Ho bisogno di respirare un’aria internazionale e di essere a contatto con più stimoli, vita, cultura e persone con interessi simili ai miei.