L’enorme incendio che ha devastato Los Angeles ha riportato alla luce le ricorrenti paure sugli effetti che eventi catastrofici hanno sulle città e sui loro abitanti. Anche qui in Italia, dove la periodica replica di terremoti, inondazioni, dissesti e simili vanta una cadenza da fare invidia all’appuntamento natalizio con “Una poltrona per due”.
Difficilmente si va oltre le lamentazioni estemporanee, le canoniche denunce e le tradite promesse che “stavolta sarà diverso”. L’incapacità del Paese e della sua classe dirigente di andare al di là della contingenza, del consenso istantaneo da tiktoker, dell’attenta osservazione del proprio ombelico è preoccupante. Perché altri disastri, oltre quelli catastrofali, sono all’orizzonte, con un’aggravio: non si tratta di eventi aleatori, ma certi.
Il problema demografico del Paese è enorme. Soprattutto per gli effetti sul futuro mondo del lavoro e sulla tenuta del sistema di welfare. Secondo l’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) tra 15 anni, nel 2040, ci sarà in Italia un gap di 4 milioni di lavoratori rispetto a oggi. L’Istat stima che potrebbero essere anche di più, addirittura 7. Tenendo conto che a fine 2023, secondo l’Inps, i lavoratori nel Paese sono stati 26,8 milioni e che il 2024 è stato un anno complessivamente positivo per quanto riguarda l’occupazione, ciò vuol dire che tra 15 anni i cittadini che dovranno farsi carico del sostegno economico del Paese (pensioni, sanità, fisco, ecc) saranno tra un quinto e un quarto in meno rispetto a oggi.
La soluzione non è quella di mettersi tutti a fare figli, al di là della piacevolezza o meno del compito. Tra 15 anni ben pochi di loro sarebbero pronti a entrare attivamente nel mondo del lavoro. C’è bisogno, se mai, di un maggiore contributo femminile alla causa, ché l’occupazione delle donne in Italia resta tra le più basse dei Paesi sviluppati; serve una politica dell’immigrazione e serve un aumento sensibile della produttività, in modo che i meno attivi producano più ricchezza utilizzabile a sostenere i più numerosi inattivi.
Ma anche in questo non siamo messi benissimo. Nel 2023, sempre numeri Istat, la produttività del lavoro è crollata del 2,5% e pure i primi dati preliminari sul 2024 non mostrano inversioni di tendenza. In realtà non dovrebbe stupire, visto che a fronte di un tasso di occupazione attorno ai massimi di sempre, il Pil è cresciuto sia nel ’23 sia nel ’24 dello 0 virgola qualcosa per cento, in diminuzione.
Ammettiamolo, siamo tecnologicamente attardati, allergici al progresso tecnologico – come i timori per 5G, vaccini, Intelligenza artificiale o carne coltivata, siano essi spontanei o “spintanei” a difesa di rendite di posizione consolidate, sembrano dimostrare – e siamo pure spaparanzati sulla retorica del “piccolo e bello” perché si sta bene e non c’è la grande multinazionale che ti sfrutta. Quando la realtà è tutt’altra: per stipendi maggiori e migliori condizioni di lavoro le dimensioni contano, e come!
Un ultimo appunto riguarda la questione stranieri. Evitando ogni retorica e cercando di restare equidistanti rispetto alle principali posizioni, il Paese è assolutamente deficitario per quanto riguarda una qualsivoglia politica immigratoria. Si parla di immigrazione, non di accoglienza, che è altra cosa. E’ un tema essenzialmente economico, che andrebbe affrontato sulla base di studi e dati: di quante risorse umane abbiamo bisogno, di che tipo di risorse, con che qualifica e capacità, come possiamo procurarcele, come si possono integrare, quanto costerebbe e quanto produrrebbe…
Ma nessuno vuole farlo. Non chi sventola lo spauracchio dello straniero, per cercare consenso, né chi sbandiera la superiorità etica dell’ospitalità a priori, senza accennare al come farlo e a che costo. Il tutto, ovviamente, per creare consenso.