Come in altre nazioni, anche in Italia, dove la presenza di cittadini stranieri è un fenomeno relativamente recente, il legame tra immigrazione e valore immobiliare è un tema complesso e dibattuto. Secondo i dati Istat aggiornati all’anno appena concluso, su una popolazione totale di circa 58 milioni e 990mila unità, in calo di 7mila unità rispetto alla stessa data dell’anno precedente (-0,1 per mille abitanti), i residenti stranieri sono circa 5 milioni e 308mila unità, in aumento di 166mila individui (+3,2%) sul 2023. L’incidenza sulla popolazione totale tocca quindi il 9%. Il 58,6% degli stranieri in Italia, pari a 3 milioni e 109mila unità, risiede al Nord, per un’incidenza dell’11,3%. Altrettanto attrattivo per gli stranieri è il Centro, dove risiedono un milione 301mila individui (24,5% del totale) con un’incidenza dell’11,1%. Più contenuta la presenza di residenti stranieri nel Mezzogiorno, 897mila unità (16,9%), che raggiunge un’incidenza appena del 4,5%.
Ma torniamo all’immobiliare. Studi condotti in Italia e in altri Paesi europei continuano a mostrare che se da un lato la presenza di immigrati (che tiene conto non soltanto dei residenti ma anche di chi vive in Italia per motivi di studio o lavoro) può portare a una domanda crescente di abitazioni, dall’altro può anche influenzare negativamente i prezzi degli immobili in alcune aree urbane, spesso a causa di fattori legati alla percezione della sicurezza e alla qualità del contesto sociale. Sono infatti numerose le tipologie socio-economiche di stranieri, europei e non, che scelgono l’Italia come meta in cui vivere.
Tipologie di stranieri per fasce socio-economiche e impatto immobiliare
Ci sono persone, purtroppo in aumento, che lasciano la madrepatria spinti da guerra e povertà nel tentativo di trovare migliori condizioni di vita ed economiche. Il loro impatto nel mondo del lavoro è fondamentale così come in quello del finanziamento pensionistico. A volte, però, queste persone faticano a integrarsi nel sistema Paese e creano situazioni di disagio nelle aree in cui risiedono con conseguenze negative anche nel settore immobiliare: i prezzi delle case si abbassano, gli edifici non vengono rinnovati o efficientati, le attività commerciali dei quartieri vengono colpite dalla crisi, gli italiani della classe media si spostano in zone più sicure e quindi l’intero mercato tende a svalutarsi. Sono tristemente note anche le storie di chi non riesce a permettersi un’abitazione ed è costretto a vivere in spazi piccolissimi e in condizioni di scarsa igiene anche con 10 persone, così come le notizie sulle case periodicamente occupate e sgomberate dalle Forze dell’Ordine. Ma la situazione è molto più complessa e articolata di quanto sembri. E’ infatti su questo punto che si concentrerà il seguente articolo.
Tra gli stranieri, però, ci sono anche giovani studenti e lavoratori, spesso medio o altospendenti, alla ricerca di un’esperienza di studio e di vita in un altro Paese. Queste persone, che in maggioranza preferiscono la città, possono vivere in studentati insieme ad altri giovani oppure optare per appartamenti (in condivisione o non) in zone centrali. Il loro impatto nell’economia e nel mondo del lavoro e della ricerca generalmente è positivo e le loro abitudini immobiliari, così come quelle di vita, sono assimilabili a quelle di molti cittadini italiani dello stesso status sociale, economico e professionale.
Tra gli stranieri, infine, percentuale decisamente minoritaria a livello numerico, possiamo annoverare anche i super ricchi: vivono o risiedono nelle aree migliori e più sicure delle principali città italiane oppure sono proprietari di case e ville di lusso sia in luoghi isolati dal frastuono cittadino sia nelle zone turistiche più esclusive: i grandi Laghi del Nord Italia, la montagna più chic ed elegante e le zone costiere simbolo del Belpaese. Per non parlare di chi sceglie l’Italia, anch’essi in numero ridotto ma in grado di generare effetti positivi nel mercato immobiliare, come meta in cui trascorrere la terza età.
Milano: la distribuzione degli stranieri nella città è in base al reddito
Milano è sempre più multietnica e multiculturale: il traguardo dei 300mila residenti di nazionalità diversa da quella italiana, il 21% della popolazione totale, è stato raggiunto e superato all’anagrafe nel bilancio finale del 2023. Per l’esattezza, sono 301.149 gli stranieri che hanno la residenza nel capoluogo lombardo (senza dunque contare gli immigrati irregolari). Si tratta del 21% della popolazione milanese, che a sua volta ha oltrepassato negli scorsi 12 mesi la soglia del milione e 400 mila abitanti. Ma in quali aree della città si concentrano maggiormente gli stranieri?
Secondo “Il melting pot della nuova Milano: superato il 20% di residenti stranieri. Le comunità più presenti e i quartieri più multietnici: ecco quali sono”, articolo di febbraio 2024 a firma di Miriam Romano per La Repubblica, Loreto-Casoretto-Nolo è la zona con più stranieri (14.583). L’asse multietnico di via Padova, infatti, si conferma un luogo particolarmente attrattivo. A seguire Villapizzone con 13.809 stranieri, dove la maggioranza sono gli oltre tremila cittadini cinesi. Mentre il cuore pulsante della vita dei residenti di origine egiziana a Milano rimane il quartiere di San Siro, dove sono registrati 3.902 abitanti. La quota di nuovi milanesi cresce però dappertutto, anche nel centro città. In zona Duomo, per esempio, hanno superato quota 2.500: filippina, francese e srilankese sono le nazionalità preponderanti. Così come a Brera, dove sono registrati oltre 3.200 stranieri residenti.
Ma gli stranieri vivono separati rispetto agli italiani? Già da questa prima panoramica sembrerebbe di no, e infatti i dati sono confermati anche da altre fonti. A Milano comanda quasi sempre il fattore economico, e non è una frase fatta. La struttura sociale, residenziale e urbanistica della città è definita in maniera quasi totale dalla linea di demarcazione determinata dal reddito e dalle possibilità economiche, che si riflettono anche sulle abitudini immobiliari. I concetti di centro e periferia oggi sono sempre più sovrapponibili alla scala ricchezza/povertà. Lo riporta Gianni Santucci per Il Corriere della Sera in un articolo del 5 marzo 2023 intitolato “Milano, la distribuzione residenziale degli stranieri: non ci sono ghetti etnici (tranne Chinatown)”, sulla base di un dossier a cura dell’università Bicocca e dell’Ats di Milano sull’ “indice di segregazione” di ciascuna comunità straniera presente a Milano.
La segregazione a Milano è data dalla povertà, eccezione Chinatown
L’ampio report racconta che «le comunità straniere di Milano sono tra quelle che presentano il più basso indice di segregazione delle minoranze nell’intero panorama europeo». Rispetto ad altre città europee, da un punto di vista socio-economico le classi alte e medio-alte del capoluogo lombardo sono molto meno distribuite nella città. Più il reddito è alto, più l’attrazione verso il centro orienta le scelte residenziali: alta e media borghesia, rispetto al resto d’Europa, sono iper-concentrate nel cuore della città e nei suoi immediati dintorni. Il centro viene così ad essere un luogo di «segregazione inversa»: del tutto inaccessibile alle classi svantaggiate, in modo del tutto indipendente dall’origine.
L’unica eccezione nello scenario cittadino è costituita dalle circa 35 mila persone (18 mila famiglie) d’origine cinese: le uniche che mostrano indici di concentrazione alti e che, a partire dalla zona di Paolo Sarpi, hanno replicato lo stesso modello nei quartieri a Nord di quell’area. Più che di segregazione, i ricercatori descrivono una dinamica di «enclave economica», in cui la concentrazione residenziale è orientata dalla struttura economica: piccole aziende che beneficiano dall’essere vicine l’una all’altra, la maggior parte a conduzione familiare, e con l’abitudine di vivere il più vicino possibile al luogo di lavoro; infine, un’offerta di servizi orientata in particolare alla comunità stessa.
La ricerca, anche se risale a circa due anni fa, ha permesso di individuare la corrente profonda che sta determinando l’evoluzione della città, e che continuerà a farlo nei prossimi anni. Con un fattore di rischio comunque alto, che si può sintetizzare in una formula: se con buona probabilità a Milano non si formeranno banlieue caratterizzate dal punto di vista etnico, ciò non significa (e ce ne sono già segnali abbastanza evidenti) che non si possano strutturare banlieue nelle quali l’elemento che fa da cemento interno e segregazione verso l’esterno è la povertà. «Il tema ha una rilevanza cruciale per le politiche locali — concludono i ricercatori — con l’obiettivo di contrastare la crescente polarizzazione nel territorio milanese, nel quale emerge una sempre più evidente frammentazione tra le zone di forte interesse commerciale ed economico e le aree che diventano sempre più periferiche non solo da un punto di vista geografico, ma anche in una prospettiva socio-economica».
Stefano Boeri: “Necessario riqualificare l’edilizia esistente ma anche costruire nuove case”
Esprime il suo punto di vista sulla questione anche l’architetto di fama internazionale Stefano Boeri, intervistato da Dario di Vico per Il Corriere della Sera a settembre 2024: “Non bisogna creare dei quartieri-ghetto e non bisogna alimentare sul mercato della casa una concorrenza tra lavoratori immigrati e coloro che già attendono una casa e che sono circa 600 mila famiglie. Il punto da cui partire -continua l’architetto – non può che riguardare il settore dell’edilizia popolare che registra, appunto, un eccesso di domanda (le 600 mila famiglie di cui sopra). Questo patrimonio va innanzitutto riqualificato, ad esempio molti alloggi andrebbero ridimensionati e suddivisi per rispondere ai tagli più richiesti oggi dai nuclei familiari, spesso superfici attorno ai 75 metri quadri. Bisogna investire sull’edilizia popolare in primo luogo recuperando e ottimizzando l’esistente. E il Pnrr, che prevede risorse per 2 miliardi destinate all’edilizia popolare, è un primo passo. Ma la riqualificazione passa anche per l’affrontare questioni come l’eccessivo sfitto per problemi burocratici (il 7%), la presenza di un’estesa morosità (circa il 4%) e il degrado acuto degli edifici. Detto questo non ho alcun dubbio nel dire che oltre al recupero dell’esistente vanno anche costruite nuove case popolari“.
Un altro importante punto di un ipotetico piano casa riguarda invece “l’housing sociale, una tipologia di investimento che può dare un 5-6% di redditività e può essere gestita da quelle forme di capitalismo etico che fortunatamente esistono sul mercato. L’housing sociale, come prezzi di affitto, si colloca a metà tra le case popolari e il libero mercato delle abitazioni. Noi in materia siamo indietro, mentre in Europa, ad esempio in Germania e Olanda, si arriva anche al 30% e diversi paesi hanno risolto per questa via la loro crisi abitativa. Parlo di una formula che in scarsità di risorse pubbliche permette di mobilitare capitali privati a condizione che si garantisca un prezzo sostenibile agli affittuari. In Italia abbiamo realizzato ancora troppo poco e solo al Nord. A Milano cominciano ad esserci interventi significativi, ma a Roma ad esempio ancora pochissimo”.
Un terzo tassello della strategia abitativa di Boeri potrebbe invece coinvolgere “il patrimonio delle abitazioni private sfitte di piccoli proprietari. Che restano vuote o vengono affidate a Airbnb. Città come Vienna hanno addirittura deciso di acquistare le abitazioni sfitte. In Spagna c’è un’agenzia che se ne occupa. Non dimentichiamo poi che adesso ci sono anche tanti uffici sfitti, un tema che è entrato nell’agenda pubblica di una città come New York. Sono uffici costruiti negli anni ’70 e ’80, oggi inutilizzabili, che andrebbero trasformati in residenze. Il complesso di interventi che stiamo delineando ha il grosso vantaggio che evita di costruire banlieue-ghetto e invece crea quartieri con un alto mix sociale e culturale, favorendo la coesione tra gli abitanti“.
Andrebbero quindi effettuati molti più “interventi di sostituzione edilizia. Ci sono almeno 4 milioni di abitazioni realizzate negli anni ’60, ’70 e ’80 che sono energivore, spesso a rischio idrogeologico e sismico e in condizioni di degrado; molte addirittura abusive. Bisognerebbe demolire e ricostruire con le stesse volumetrie usufruendo di misure di incentivo, togliendo ad esempio la replica degli oneri di urbanizzazione. Sono ragionamenti condivisi in Ance e in Confindustria. Il patrimonio immobiliare desueto va innovato, ma purtroppo il settore non ha fatto innovazione”.