La recente vicenda giudiziaria nota come Salva Milano ha, quantomeno, avuto il merito di riportare all’attenzione nazionale un nodo irrisolto dell’intero sistema urbanistico italiano: la profonda incertezza normativa che grava sulle trasformazioni edilizie.
Era dunque necessario assistere a uno scontro interpretativo tra Comune di Milano e Procura della Repubblica, per far venire a galla la necessità, ormai improcrastinabile, di una riforma – probabilmente di rango costituzionale – che restituisca certezza e coerenza al governo del territorio.
La Procura della Repubblica di Milano ha avviato una serie di indagini su alcuni interventi edilizi qualificati dal Comune come ristrutturazioni edilizie. L’amministrazione comunale, applicando una lettura funzionalista e coerente con il proprio Piano di Governo del Territorio, ha per anni autorizzato interventi di demolizione e ricostruzione anche in assenza di piano attuativo, sulla base di titoli edilizi diretti.
Tali interventi, secondo l’impostazione dell’autorità giudiziaria, avrebbero invece richiesto la pianificazione attuativa, poiché eccedevano i limiti della ristrutturazione e incidevano in modo significativo sulla morfologia urbana.
Lo scontro ha prodotto effetti paralizzanti per il settore: incertezza operativa, contenziosi, rallentamenti nei cantieri, e un clima di diffidenza diffusa tra operatori, professionisti e pubblica amministrazione, ma soprattutto e, forse prima di tutto, grande e comprensibile terrore tra i piccoli investitori che hanno acquistato immobili nei cantieri contestati.
Nel tentativo di fornire una cornice operativa più chiara e uniforme in un momento di forte incertezza, la Giunta comunale di Milano ha dunque approvato, a partire dal 2024, una serie di nuove misure e, in ultimo, in data 7 maggio 2025 le “Linee di indirizzo per lo sviluppo delle attività amministrative in materia urbanistica ed edilizia”. Si tratta di un documento volto a guidare l’attività istruttoria degli uffici tecnici, in attesa dell’approvazione della variante generale al PGT. Le nuove linee di indirizzo mirerebbero a razionalizzare l’uso degli strumenti urbanistici e a chiarire quando sia necessario ricorrere a un piano attuativo, un permesso di costruire convenzionato o un titolo edilizio diretto.
Secondo tali linee guida, il ricorso al Piano Attuativo sarà obbligatorio nei casi in cui un intervento superi i 25 metri di altezza, comporti una densità edilizia superiore ai 3 metri cubi per metro quadro, oppure si discosti dalle norme morfologiche previste dal PGT. Per gli interventi su aree di superficie territoriale superiore ai 20.000 metri quadri, sarà inoltre necessario reperire dotazioni territoriali pari almeno al 50% della superficie complessiva dell’area di intervento.
Tuttavia, nel caso in cui gli interventi ricadano all’interno dei cosiddetti “Nuclei di antica formazione” o dei “Tessuti urbani compatti a cortina” – contesti urbani consolidati con caratteristiche morfologiche omogenee – sarà possibile procedere con un permesso di costruire convenzionato, purché l’intervento rispetti le norme morfologiche. Negli altri casi, sarà sufficiente un titolo edilizio diretto.
Infine, qualora l’intervento preveda un cambio di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, l’amministrazione dovrà valutare di volta in volta la modalità più adeguata per il conferimento delle necessarie dotazioni territoriali, che potranno essere garantite attraverso cessione, asservimento di aree o monetizzazione.
Nella confusione generale e nella nebbia dentro la quale ci siamo mossi in questi mesi, o forse, nelle sabbie mobili dentro le quali tutti i soggetti del settore si sono ritrovati, potremmo affidare a tali Linee guida l’obiettivo di fornire, quantomeno, una guida operativa seppur, mi auguro, solo momentanea.
Ciò che la vicenda milanese però evidenzia con forza è che il problema non risiede nelle politiche urbanistiche locali, ma nella colpevole confusione a livello normativo provocata da una legislazione edilizia e urbanistica sedimentata negli ultimi decenni in modo incoerente e disorganico.
Definizioni centrali come “ristrutturazione edilizia”, “sagoma”, “identità dell’edificio”, o “cambio di destinazione d’uso” sono oggetto di interpretazioni divergenti da parte di Comuni, Regioni, giudici amministrativi e penali. L’effetto è devastante: assenza di certezza del diritto, difficoltà istruttorie, contenziosi continui, paralisi programmatorie e diffidenza reciproca tra pubblica amministrazione e privati.
In questo contesto di caos normativo, la promozione di interventi di rigenerazione urbana meriterebbe invece gratitudine, non sospetti. Ritengo che le amministrazioni abbiano agito nella consapevolezza dell’urgenza di rispondere alla domanda abitativa, alla crisi climatica, al degrado urbano. E lo hanno fatto spesso in assenza di certezze giuridiche poiché derivante da una normativa ormai obsoleta sia sotto il profilo dell’interesse pubblico che della coerenza urbanistica.
Si fa sempre più pressante, infatti, l’urgenza di un aggiornamento della legislazione urbanistica nazionale, che tenga conto della radicale trasformazione del tessuto urbano italiano rispetto ai tempi della legge 1150/1942. L’obiettivo non deve essere solo quello di risolvere il caso di Milano, ma di fornire un quadro normativo chiaro e moderno per tutte le Regioni e i Comuni italiani.
A mio avviso, i tentativi di modificare ancora il Testo Unico dell’Edilizia sarebbe solo un inutile accanimento terapeutico. Tentare di coordinare leggi statali e regionali senza un disegno unitario equivale a muoversi in un ginepraio inestricabile.
Occorrerebbe invece un atto politico e istituzionale coraggioso a partire dalla modifica dell’art. 117 della Costituzione, al fine di attribuire a tutti i soggetti coinvolti in materia di governo del territorio, una volta per tutte, in maniera chiara e univoca, le necessarie competenze che trovino però nello Stato la competenza legislativa esclusiva.
Solo così si potrà restituire coerenza, certezza e responsabilità all’intero comparto urbanistico-edilizio. Senza una riforma strutturale del sistema delle fonti, quello di Milano non potrà che essere considerato come un caso emblematico, fino al prossimo caso che è dietro l’angolo.
di Antonio Ditto – VD Avvocati Associati