350 miliardi di euro sotto i mari. Parafrasando il titolo della famosa opera di Jules Verne è questo il valore economico potenziale del sistema portuale italiano.
Alessandro Ferrari, direttore di Assiterminal, in una recente intervista lo spiega con una franchezza che colpisce: “Negli ultimi 25 anni la nostra capacità portuale è rimasta sottoutilizzata. Il Piano Nazionale della Portualità e della Logistica già nel 2015 misurava la capacità italiana tra i 20 e i 30 milioni di TEU. Oggi movimentiamo circa 11 milioni di container”.
Ovvero, stiamo usando meno della metà di quello che potremmo. Come avere una supercar e usarla solo in prima marcia.
La storia diventa ancora più frustrante quando spostiamo l’attenzione verso il sud del Paese. Qui i porti hanno tutto: posizione strategica, infrastrutture moderne, professionalità. Tutte condizioni necessarie ma non sufficienti per far “salpare” i porti dell’Italia meridionale verso il successo a cui possono aspirare.
In questo scenario, un termine riveste una rilevanza centrale: intermodalità. Una parola che suona tecnica ma che nasconde una verità semplice e amara: i porti pugliesi o calabresi vanno meglio connessi ai centri di smistamento della produzione, che in Italia si trovano al Nord-NordEst.
Il risultato? Porti che potrebbero competere con Rotterdam si ritrovano a servire solo il mercato locale, in un raggio di 200 chilometri. È come avere un aeroporto internazionale senza strade che ci portino.
E poi c’è il dato che fa più male: portare un container fuori da Genova costa 4-5 volte più che a Rotterdam. La geografia, che dovrebbe essere il nostro punto di forza, diventa il nostro tallone d’Achille.
C’è un dato che fa riflettere: il 40% delle merci che arrivano in Italia via mare transitano e vanno altrove. Gioia Tauro, ad esempio, è leader incontrastato in questo tipo di attività. Questo caso specifico dimostra la capacità del nostro paese di essere competitivo a livello internazionale. Inoltre, evidenzia come gran parte del valore aggiunto delle merci che transitano nei nostri porti venga creato altrove.
È un po’ come essere il parcheggio dell’Europa: tutti passano da noi, ma pochi si fermano a comprare. L’obiettivo deve essere trasformare il transito in permanenza, il passaggio in destinazione.
Ma in questo scenario non ci sono solo ombre: alcuni porti del Sud stanno già scrivendo il futuro. Taranto, Augusta, Brindisi stanno investendo in hub funzionali all’eolico offshore.
L’idea è geniale nella sua semplicità: trasformare i porti in centrali di produzione energetica verde. Immaginatevi le città costiere alimentate dall’energia prodotta nei loro stessi porti. Non solo sostenibilità, ma anche indipendenza energetica.
Ed è proprio qui che entra in gioco il concetto di blue economy: non si tratta più soltanto di spostare container, ma di ripensare il mare come motore di sviluppo sostenibile. Dentro questa espressione rientrano la cantieristica innovativa, le energie rinnovabili marine, la pesca e l’acquacoltura avanzata, il turismo costiero e persino le biotecnologie legate alle risorse del mare. Per un Paese che vive letteralmente immerso nel Mediterraneo, la blue economy è la chiave per trasformare la sua posizione geografica da debolezza in vantaggio competitivo.
Guardando verso nord, verso quei porti che sono diventati modelli mondiali, una cosa colpisce: Rotterdam, Anversa, Amburgo non sono sempre stati così. Anzi, fino a qualche decennio fa erano tra i luoghi più inquinati d’Europa.
La loro trasformazione è iniziata con una visione: non bastava muovere container, bisognava ripensare completamente il rapporto tra porto e territorio. E soprattutto, bisognava fare delle scelte coraggiose in termini di sostenibilità.
Rotterdam oggi è leader mondiale nella logistica verde. Anversa ha trasformato la sua area portuale in un distretto dell’idrogeno. Esempi che dimostrano una verità semplice: quando ambiente ed economia viaggiano insieme, i risultati sono straordinari.
Ma un paese che per 2/3 del suo territorio è circondato dal mare, dovrebbe prendere in considerazione il ruolo strategico di tale risorsa per il proprio sviluppo. Non sorprende quindi che Ferrari abbia evocato l’idea di un Ministero del Mare come passo decisivo per dare centralità al settore.
Un ministero, però, non può nascere dal nulla. Ha bisogno di basi scientifiche solide, di dati certi, di competenze tecniche. E qui diventano fondamentali gli attori istituzionali e della ricerca, come l’ONTM (Osservatorio Nazionale Tutela del mare), che da anni studia gli ecosistemi marini, le potenzialità delle energie offshore e gli impatti ambientali delle attività portuali. Sono loro a fornire le mappe, i modelli previsionali e le best practices internazionali che possono orientare le scelte strategiche di governo. Senza queste conoscenze, ogni visione resterebbe un libro dei sogni.
La sensazione è che siamo a un punto di svolta. Le pressioni competitive internazionali crescono, ma crescono anche le opportunità legate alla transizione energetica e alla crescita del commercio mediterraneo.
E forse, per la prima volta dopo decenni, abbiamo tutti gli elementi per riuscirci: le infrastrutture, le competenze, le tecnologie. E soprattutto, la consapevolezza che il tempo delle occasioni mancate deve finire.
I 350 miliardi di euro di potenziale del nostro sistema portuale non sono solo un numero. Sono il futuro possibile di un Paese che può tornare a essere protagonista sui mari che hanno fatto la sua storia.
Bisogna solo avere il coraggio di intraprendere la navigazione.
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