La ricerca di una maggiore produttività dei fattori economici è uno dei grandi obiettivi della politica economica nazionale, anche perché si tratta di un evidente tassello mancante nel lento e stentato percorso di uscita dell’Italia dalla crisi. Quello della produttività è un aspetto che, su un arco temporale esteso, acquista ancora più rilevanza se considerato in ottica di consolidamento della sostenibilità della crescita nel tempo.
Le ricette proposte da analisti, osservatori ed esperti si focalizzano perlopiù sul versante tecnologico. La soluzione alle carenze di produttività del Paese, quindi, andrebbe superata attraverso un migliore utilizzo del capitale, eventualmente aumentandone l’impiego da parte delle aziende, e facendolo confluire in direzione dell’innovazione tecnologica.
Se ciò è comprensibile dato l’evidente ritardo che il Paese soffre in molti campi tecnologici, dall’altro lato si corre il rischio di sottovalutare l’altra leva su cui agire per incrementare la produttività, ossia quella del capitale umano, che è altrettanto decisiva.
Ne è una chiara dimostrazione l’affermazione dello smart working, ossia delle nuove forme flessibili di lavoro e di condivisione di spazi e luoghi dove operare, che stanno prendendo sempre più piede in Italia, coinvolgendo un numero crescente di aziende e lavoratori del nostro Paese. Un’innovazione, di processo oltre che organizzativa, che sta avendo effetti anche sul comparto uffici dell’immobiliare, con le numerose operazioni di revamping di centri direzionali attorno ai grandi centri urbani, in quanto ormai non più adeguati a soddisfare le montanti esigenze aziendali in tema di organizzazione del lavoro, di cui be© a Cassina de Pecchi è un compiuto e riuscito esempio.
Secondo le stime dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano (una delle, se non la più autorevole delle fonti sull’argomento in Italia), se la nuova veste organizzativa della vita lavorativa e professionale venisse messa
a regime potrebbe generare un incremento di produttività di 13,7 miliardi di euro. Una cifra notevole che potrebbe essere raggiunta allargando la platea dei fruitori dello smart working, dagli attua- li 305mila dipendenti ai 5 milioni potenziali.
Questo a livello macro, ma cosa può comportare tutto ciò per l’impresa? Sempre secondo l’Osservatorio Polimi, i lavoratori in versione smart raggiungono livelli di produttività superiori del 15% rispetto ai colleghi che smart non sono. Gli oltre 300mila già impiegati in questa modalità in Italia, peraltro, oltre a produrre di più, lo fanno anche con maggiore soddisfazione: soltanto l’1% dei lavoratori smart si dichiara insoddisfatto del proprio lavoro a fronte di un 17% degli altri lavoratori.
Altro aspetto non secondario: gli smart worker spiccano per una maggiore padronanza di competenze digitali, un maggior grado di collaborazione a ogni livello aziendale e una più spiccata pro- pensione al lavoro in gruppo e alla condivisione di conoscenze e informazioni per un obiettivo comune.
Lo smart working ha poco a che vedere con i vecchi modelli di lavoro flessibile o telelavoro degli anni scorsi. E’ un modello manageriale che interviene nel rapporto tra individuo e azienda, proponendo autonomia nelle modalità di lavoro a fronte del raggiungimento dei risultati e, sul fronte aziendale, garantisce servizi e benefit in grado di migliorare anche di molto la qualità della vita lavorativa.
L’azienda spende meno perché favorire la prestazione di lavoro sulla base di compiti e risultati piuttosto che calcolata sulle ore passate in ufficio, responsabilizzare i dipendenti, e condividere spazi se non addirittura postazioni significa ridurre gli spazi fisici occupati e i consumi. Mentre dal punto di vista del lavoratore migliora l’equilibrio tra vita privata e professionale che vuol dire, a vantaggio di entrambi, meno assenze, più motivazioni, persino meno malattie e maggiore soddisfazione.