Vittorio Gregotti (1927-2020), architetto tra i più conosciuti del Novecento ha affiancato a una solida attività professionale – prima con Ludovico Meneghetti e Giotto Stoppino, poi con la Gregotti Associati; tra le opere più importanti: il quartiere ZEN Zona Esterna Nord di Palermo, la Pirelli Bicocca a Milano, lo stadio di Genova – una intensa attività accademica presso le Facoltà di Venezia, Milano e Palermo e un impegno teorico e critico attraverso articoli (Corriere della Sera, raccolti nel volume “Architettura e progetto. Scritti per il Corriere 2001-2017”), riviste (Casabella, Rassegna, Il Verri) e libri.
Il suo testo Il territorio dell’architettura (1966, ancora ristampato da Feltrinelli) ha segnato il piano di studi di quasi tutti i progettisti italiani.
Architetto spesso contestato (ma questa è fortuna di pochi), ha generosamente parlato di sé e della sua formazione in un piccolo e prezioso libro Recinto di fabbrica (Bollati Borighieri, 1996).
“Quando ho cominciato, l’architettura non aveva una grande popolarità. Oggi gli architetti si sono trasformati in qualcosa che somiglia al modo di essere dei calciatori o dei cantanti. Cercano di conquistare il pubblico – si legge tra le pagine del libro – L’architettura è diventata più popolare, ma nei suoi aspetti più estetici e più esteriori. Un tempo l’architetto portava pochi progetti nella società che venivano guardati e discussi con attenzione. Ora gli architetti sono migliaia”. E progettano il Curvo, il Dritto e lo Storto (come se l’architettura fosse un film di Sergio Leone).
Gregotti Associati è stato il primo studio italiano di progettazione apparso nella classifica di World Architecture relativa ai migliori architetti del mondo.
Milano lo ha salutato in un’irreale domenica di rispettoso silenzio.