Ricotti (Università Cattolica): “Cultura indipendente e undergound possono sopravvivere a Milano”

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Il Leoncavallo è stato sgomberato. E adesso? Quando si parla di real estate, il discorso abituale tende spesso a concentrarsi su numeri, progetti e investimenti economici, anche se alla fine a raccontare le vere cifre che analizziamo sono sempre i cittadini, ovvero le persone che il real estate lo vivono tutti i giorni. In questa intervista proveremo quindi a spostare lo sguardo verso l’elemento umano del nostro settore e a procedere in una direzione meno economica, ma più antropologica e culturale. Il recente sgombero del Leoncavallo diventa infatti il punto di partenza per una riflessione più ampia e critica sul carattere degli spazi occupati. Luoghi e realtà immobiliari che da decenni producono, o dicono di produrre, cultura, sperimentano nuove (di 50 anni) forme di socialità e creano un impatto sulla vita dei quartieri. Luoghi e realtà immobiliari che però incorporano per natura un contrasto inevitabile: da un lato la condizione di illegalità e abusivismo in quanto spazi occupati, dall’altro la centralità per la città, la sua anima e la sua identità culturale.

Ad approfondire questo ed altri temi è oggi con Requadro Alessandro Ricotti, dottorando in Sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (settore scientifico disciplinare “Sociologia dei processi culturali”, con interessi di ricerca in Sociologia della scienza, Sociologia dei media e Sociologia delle sottoculture) e fervido appassionato di culture underground e indipendenti.

Domanda: Al di là delle evoluzioni che sono ancora in corso, che cosa sta rappresentando lo sgombero del Leoncavallo per Milano e la sua comunità?
Risposta: A mio avviso, lo sgombero della struttura – come hanno scritto in tanti nelle ore e nei giorni successivi all’evento – è emblematico di un modo di gestire la città orientato unicamente al profitto, di un andazzo che non è soltanto culturale, ma anche e soprattutto politico ed economico. In questo senso, lo sgombero del Leoncavallo è soltanto la punta di un iceberg, perché negli ultimi anni abbiamo visto più volte come la città abbia estirpato non tanto degli spazi o delle esperienze culturali, quanto dei modi alternativi di stare in società. Poi certo, i fatti stanno avendo una forte rilevanza mediatica perché il Leoncavallo è un luogo estremamente rappresentativo sia per la sua storia sia per il ruolo che ha avuto nella cultura indipendente a Milano.

D: Hai dei ricordi legati al Leoncavallo?
R: La mia esperienza con il Leoncavallo è essenzialmente legata ai concerti, anche se ho partecipato a diverse fiere come quelle dell’editoria indipendente, alla Festa del raccolto e a numerose mostre di artisti contemporanei. Il mio periodo di maggior frequentazione risale ai primi anni dieci, tra il 2010 e il 2015. Ricordo concerti bellissimi, come quello dei Melvins, uno dei gruppi più importanti dell’underground americano, fondamentale anche per i Nirvana e tutta la scena grunge. Al Leoncavallo sono passati anche i nomi più grossi del punk rock italiano degli anni Ottanta e Novanta: i Punkreas, i Rappresaglia, i Los Fastidios. Ho quindi vissuto il Leoncavallo più per partecipare alla sua offerta culturale e musicale, che per me è stata fondamentale. Sono cresciuto in quella che è stata la “coda lunga” del movimento no-global dei primi anni 2000, ho frequentato collettivi scolastici e altri spazi occupati come il Lambretta e lo Zam. Il Leoncavallo era quindi in linea con la musica che volevo ascoltare e le esperienze che volevo vivere. Poi con gli anni l’offerta di concerti di spessore è un po’ calata,.

D: Guardando a Milano oggi, come descriveresti lo stato della cultura indipendente e underground, in particolare dal punto di vista degli spazi indipendenti?
R: Cultura underground e cultura indipendente sono due cose distinte. Per quanto riguarda l’underground, mi riferisco ai movimenti culturali di piccole dimensioni sconosciute al mainstream. Personalmente, frequento la scena hardcore punk della città, che dal termine del Covid sta vivendo un momento floridissimo, sulla scia di quanto è accaduto negli Stati Uniti: un ricambio generazionale, fatto di nuovi stili e contaminazioni. A Milano e nel Nord Italia, soprattutto in Veneto, abbiamo ricevuto velocemente questa scena, anche a livello di partecipazione ai concerti. Quindi la cultura underground (che oltre alla musica comprende anche fiere dei fumetti e altre produzioni artistiche) vive un buon momento. Per cultura indipendente si intende invece quella cultura che nasce, agisce e ha come oggetto del proprio messaggio un’esistenza al di fuori dei circuiti commerciali. Non è meno attenzionata e più di nicchia, è proprio attivamente interessata a esistere al di fuori di alcune dinamiche economiche, anche se talvolta è in grado di creare dibattito anche nel mainstream. In questo senso, di posti che resistono ce ne sono molti a Milano. Il punto è che la cultura indipendente non è più in grado di tenere insieme tutte quelle persone come faceva fino alla fine degli anni ‘90 o nei primi 2000. Sono fortemente convinto che il Leoncavallo è stato sgomberato anche perché non rappresentava più un centro di aggregazione così importante come in passato.

D: E il futuro come lo vedi?
R: Il futuro lo vedo grigio, se non nero, per tutti i motivi già elencati. Gli spazi che propongono una cultura indipendente e un modo di stare al mondo alternativo ai modelli consumistici non sono più centrali per le comunità e i quartieri di Milano. Secondo me, questi luoghi continuano a svolgere un lavoro eccezionale, però è un lavoro che a volte rischia di ripiegarsi su di sé.

D: Per finire con una nota di speranza, quali sono oggi i luoghi o le realtà culturali indipendenti che per te incarnano positivamente lo spirito creativo della città?
R: Nonostante tutto, ce ne sono molti. Mi viene in mente il T28 a Pasteur, dove sono cresciuto e dove vivo tutt’ora, uno spazio storico occupato fin dagli anni ’70, importantissimo per il nostro quartiere. Perché poi il punto è questo: tutti questi spazi occupati, che operano in una zona di illegalità, di fatto restituiscono alla città la propria aria. Il T28, ad esempio, è anche ambulatorio popolare per le persone che non si possono permettere un medico. Per non parlare della lotta che portano avanti contro il caro affitti o l’organizzazione di attività di doposcuola per i bambini. Insomma, è uno spazio che restituisce al quartiere un servizio che la politica non fornisce più da anni. Un altro spazio di valore è il collettivo Kasciavìt in via San Faustino, che organizza raccolte fondi e mercatini per dare spazio a piccoli artigiani e produttori. O il Lambretta, che frequentavo quando era in Piazza Ferravilla e che adesso si è spostato in via Rizzoli, proprio di fronte alla sede di RCS, creando un contrasto molto originale. Altri collettivi importanti sono lo Zam e lo storico Barrios, che si trovano nella periferia sud di Milano. Il Barrios organizza tantissimi concerti, e anche io ci ho suonato in passato. Posso citare il Lume, che adesso è in Porta Venezia e organizza proiezioni e concerti sia all’aperto sia al chiuso. Sono tutti polmoni cittadini che riescono a dare un respiro a chi non ne può più del baretto hipster con la birra artigianale a 8 euro o dei concerti al Magnolia. Ultimo ma non meno importante è il Cox 18 in via Conchetta, verso Il Naviglio Pavese. Questo sì che è un posto che va preservato, dove si trova l’archivio dello scrittore e libraio Primo Moroni. È uno spazio dove ho visto alcuni concerti bellissimi. Ricordo gruppi come i Bull Brigade (band punk rock) o i La Quiete e i Raein (appartenenti alla scena hardcore screamo), e ricordo proiezioni di film e fiere dell’editoria. È questo che dovrebbero essere i luoghi indipendenti: un atto d’amore per la propria città.

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