Non possiamo non comunicare.
Nell’istante stesso in cui ci muoviamo nel mondo e viviamo, compiamo un processo comunicativo con un obiettivo ben preciso. Comunicare, però, è un’arte. Non c’è nulla di scontato né di improvvisato all’interno di una comunicazione ben riuscita, bensì anni di studio, allenamento e preparazione.
Perché per raggiungere l’obiettivo prefissato non è sufficiente comunicare. È necessario comunicare bene.
La parola è il fondamento dei nostri atti comunicativi, però va “sempre immersa in un contesto – spiega il Professor Alessandro Lucchini, linguista, ricercatore e allenatore di tecniche della comunicazione, docente in IULM, Università Bocconi e Scuola Sant’Anna di Pisa – La parola esprime un pensiero ed ha quindi un potere enorme. Il potere di avviare una relazione, come quello di distruggerla. Se per me, in qualità di Linguista, la parola è contenuto, per un Mediatore la parola rappresenterà la forma che veste i contenuti, quindi il valore stesso della parola varia in base al contesto in cui ci troviamo e al nostro ruolo in quel dato momento”.
Ma in un simile quadro ha più peso la forma o il contenuto?
“I contenuti sono importantissimi, non si può sostenere il contrario – afferma Lucchini – Però è anche vero che prima ancora del contenuto ci arriva la forma. Nella comunicazione verbale, prima di aver ascoltato il nostro interlocutore, sentiamo il tono di voce, osserviamo i gesti, il modo di vestire. Nella comunicazione scritta il primo dettaglio su cui si sofferma il nostro sguardo sono il corpo e il carattere del testo. Ed è proprio qui che nascono i pregiudizi. È in questo breve lasso di tempo che decidiamo se fidarci del nostro interlocutore oppure no, se dargli retta e ascoltarlo oppure no. Dunque, se i contenuti sono essenziali, dobbiamo tenere conto di un fattore ancora più imprescindibile ossia che se un buon contenuto ha una cattiva forma perde tantissimo rispetto a un contenuto che di per sé non è il massimo però è dotato di una forma accogliente ed interessante”.
E questo complica le cose, perché da atto abituale, che compiamo e la società ci sprona a compiere da quando nasciamo, la comunicazione diventa qualcosa di più.
Parole, gesti, tono di voce, sguardi, pause e silenzi. Tutto è comunicazione e tutto deve essere calibrato affinché il nostro obiettivo venga raggiunto.
“Il Mediatore, – prosegue Lucchini – come ben possiamo intendere dal sostantivo, è colui che sta in medium, quindi nel mezzo. Un po’ come un negoziatore, deve trasformare il disaccordo in accordo e costruire una condizione di fiducia senza prendere le parti, ascoltando gli interlocutori ed evitando le escalation. E qui entrano in gioco le parole. Il Mediatore dovrà saperle usare, modulando tutte le sfaccettature della comunicazione per accorciare le distanze fra una parte e l’altra della mediazione. E, ancora di più, dovrà allenare la forma che normalmente usa, in modo da accrescere il valore dei propri contenuti e imparare a gestire le situazioni che rischiano di degenerare in emboli”.
Per “emboli” intendiamo quelle condizioni che ci portano a perdere le staffe. Situazioni spiacevoli, osservazioni o espressioni dall’altra parte nei nostri confronti che ci colpiscono o che accendono la miccia. Essenziale sarà, per un Mediatore, allenarsi a gestirli per usarli a proprio favore, reindirizzandoli verso il proprio scopo. Fondamentalmente perché “se ci arrabbiamo e perdiamo il controllo – conclude Lucchini – viene meno il processo comunicativo in quanto noi smettiamo di ascoltare e il nostro interlocutore sospende il suo atto di ascolto verso di noi. Il rischio, inoltre, è che se io Mediatore perdo la pazienza il mio interlocutore, in un certo senso, si spaventi e quindi il processo di creazione della fiducia si blocchi. In tal modo verrebbe meno proprio l’essenza stessa dell’attività di Mediazione, ovvero l’arte di trovare un punto di incontro fra due parti in contrapposizione, la disponibilità ad accogliere qualcosa dell’altro affinché l’altro accolga qualcosa da parte mia”.
Dobbiamo sempre ricordarci che quando parliamo forniamo agli altri una rappresentazione linguistica della rappresentazione neurologica che noi abbiamo della nostra realtà, non la realtà stessa. Ciò implica già in partenza una difficoltà di comunicazione, perché la probabilità che il nostro interlocutore riceva tale rappresentazione, così come l’abbiamo in mente noi, è bassissima.
L’unica soluzione è allenarsi ad un uso ponderato delle parole ed al suo corredo di forma. Tenendo sempre presente che quest’ultima costruirà la prima impressione di chi abbiamo di fronte nei nostri confronti e quindi getterà le basi per la buona riuscita del nostro atto comunicativo.